1 giu 2008

Questo non lo vedrete in prima serata.

Proprio adesso che si parla in modo vago di cambiare le regole di ingaggio in Afganistan, mi è venuta voglia di cercare un filmato che avevo visto di sfuggita passare su RAI 3. Il servizio è dell'ottimo Sigfrido Ranucci.
Avevano provato a proporlo alle Iene ma dato il contenuto, era arrivato il veto alla trasmissione.
Per cui in pochi hanno avuto la possibilità di vederlo. Ed è un vero peccato.
Il filmato è stato ripreso dai nostri stessi militari e documenta alcune fasi della battaglia dei Ponti di Nassirya nell'Agosto del 2004.
Ve lo faccio vedere senza secondi fini.
Penso che questo filmato avrebbe dovuto essere guardato, rimuginato e digerito.
Da allora ho un senso di fastidio che mi accompagna tutte le volte che vedo un servizio sui nostri militari all'estero. Il fastidio che quella che viene raccontata sia una storia di comodo, pura propaganda.
Mi spiego meglio, trovo encomiabile il comportamento dei soldati italiani, sarà la complicità della telecamera ma quello che vedo sono dei militari che sotto il fuoco nemico sono attenti ad eliminare l'avversario senza lasciarsi prendere la mano.
Niente fuoco di saturazione, il tiro è sempre diretto ad un obiettivo una volta che questo è stato riconosciuto ("Luca, annichiliscilo Porcozzio!", non c'e' gente che spara a casaccio, si fa attenzione a non colpirsi vicendevolmente, e così si combatte per due giorni, continuativi.
Questo conferma il livello di addestramento, l' attenzione e la professionalità dei nostri soldati, casomai ve ne fosse bisogno.





Ma, eppure di questo non si è potuto parlare e non si parla.
Si preferisce lo stereotipo in cui i nostri vanno o sono andati (nel caso dell'Iraq) costruire ospedali e ponti e magari per questo si sono fatti anche ammazzare.
Costruendo così quel bozzetto pietistico/martirologico delle nostre missioni all'estero buono per essere spolverato tutte le volte che qualche cosa va storta.
A questo punto, mi voglio risparmiare la tirata su Nassirya, farò solo un accenno.
Dopo la strage, i mezzi di informazione (tranne alcuni quali il solito Report) si sono concentrati completamente sugli aspetti più emotivi e strazianti della vicenda, sulle vittime, sui rapporti con gli iracheni poco invece ho visto, sul fronte del capire e comprendere invece se e dove erano stati fatti errori, nella gestione della situazione.
Non so se se all'interno del nostro Esercito, al sicuro da occhi profani indiscreti, vi sia stata una riflessione sulla vicenda.
Fatto sta che quella è stata la strage peggiore di un contingente dispiegato in Iraq, sicuramente non un grande successo, qualcosa , possibilmente da evitare in futuro.
In questo contesto, però si parla di martiri.
Questo è quello che si preferisce raccontare.
La realtà nel bene e nel male è diversa. Raccontare che queste non sono missioni di guerra, è probabilmente la via più comoda.
E non per evitare la domanda etica sul ripudio della "guerra come strumento per risolvere le questioni internazionali" in questo scorcio di 21esimo secolo, ormai questa è una barzelletta.
D'altra parte un esercito ce lo abbiamo, se l'articolo 11 fosse da prendere sul serio, avremmo solamente una magra difesa territoriale, invece no, abbiamo forze militari con tutti i crismi, per quanto finanziate in modo abbastanza "magro".
Il problema, scottante che vedo, è che se la guerra come diceva von Clausewitz è solo la continuazione della politica con altri mezzi, allora qual è qua la politica che sta dietro a queste missioni?

Abbiamo una politica comune con i nostri alleati o stiamo solo facendo il nostro bravo dovere di Ascari al servizio di qualcun altro?.
Perchè siamo andati in Iraq e che ci facciamo in Afghanistan?
Ma la politica tace e preferisce raccontarci degli ospedali degli acquedotti eludendo la questione.
Tra parentesi, ma su questo vorrei documentarmi, ho sentito dire che anche la sfortunata missione dell'ARMIR,venne giustificata con motivi legati alla stabilizzazione del territorio Russo, dopo l'invasione tedesca.
Neanche loro, insomma, erano in missione di Guerra.
Certo che in questo paese non cambia mai niente.

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